JOHNNY LAPIO


Il jazz di Lapio tra tecnologia, innovazione e sguardo al passato

di NICOLA DECORATO, pubblicato il 20/04/2018 su IL CAFFE' TORINESE

 

Torinese, classe 1980. Il trombettista jazz Johnny Lapio rappresenta una delle voci più interessanti dell’avanguardia artistica (musicale, ma non solo). Le collaborazioni con i più grandi musicisti del panorama internazionale, i lavori in sinergia con importanti enti cittadini, l’attività educativa, l’attenzione ai mondi di periferia ne fanno un punto di riferimento culturale della città di Torino. 

 

Partiamo dal TJF. Giunto alla sesta edizione, ha subito una profonda ristrutturazione da parte delle giunta. Come valuti il nuovo corso del TJF?

 

Penso che si debba ancora trovare una quadra. Magari quest’anno in qualche maniera ci si è riusciti, vedremo, dopotutto deve ancora arrivare. Sicuramente la scelta di fare i concerti del main alle OGR è una soluzione più comoda, perché si supera tutta una serie di ostacoli burocratici. Per quanto riguarda i concerti all’interno dei club, in linea di massima sono gli stessi dove si suona nel resto dell’anno, fatta eccezione per qualcuno rimasto fuori dal circuito. Vedremo come andrà. Il primo assetto del festival, intendendo dalla seconda edizione fino a quella dello scorso anno esclusa, a me piaceva molto. Sia per come era organizzato che per quanto riguarda le proposte. È una mia idea, però mi sembrava un festival ben orientato verso il pubblico.

 

Per quanto riguarda invece il cambio dei due direttori artistici?

 

È fisiologico che i direttori, in generale, cambino. L’assetto precedente era stato deciso da Stefano Zenni, che per quanto mi riguarda è una delle massime autorità in materia di jazz, di avanguardie, il direttore attuale è però una persona in gamba, un trombettista che apprezzo. Che si sia fatto aiutare da un altro co-direttore è una scelta dovuta a difficoltà organizzative. Come la valuto? I cambiamenti sono cambiamenti. Per valutarli bisogna sempre aspettare i risultati. Il cartellone, per quanto riguarda i concerti, come musicista mi piace molto. È una proposta comunque discreta, considerato anche il taglio del budget. Ma, ripeto, preferivo l’assetto e le proposte precedenti. Escludendo lo scorso anno.

 

Cosa significa essere un musicista (e in particolare un musicista di jazz d’avanguardia) al giorno d’oggi?

 

Vuol dire non essere calcolato sotto l’aspetto professionale da questo paese. Però, se ci si ferma a pensare a quello, non si combinerebbe più nulla. La mia è una necessità. È vero che sono musicista, ma mi sento un po’ chiuso in questa definizione: ho sempre pensato all’integrazione delle arti, non ho mai viaggiato in compartimenti stagni. Faccio musica, ma pensando alle proiezioni, faccio proiezioni, ma pensando alla musica. Cercando sempre di sperimentare cose nuove. Vuol dire che il pubblico, le persone, gli stessi colleghi non conoscono il tipo di proposta che fai. È scientifico il fatto che quel che il cervello non riconosce di solito tenda a spaventare, ma proprio questo è l’aspetto che mi intriga maggiormente. In generale penso di avere una storia da raccontare, più che un aspetto tecnico da esibire. Motivo per cui ogni volta racconto pezzi della mia storia, attraverso dei mediatori, che possono essere tanto quello sonoro quanto, spesso, quello visivo: c’è la direzione, ci sono partiture grafiche. Certo è che fare avanguardia è una scelta abbastanza eroica. Perché è diverso presentare qualcosa di maggiormente commerciale, anche in ambito jazzistico, che la gente riconosce, e dove l’apprezzamento è magari più immediato. In realtà vedo che poi c’è un buon riscontro, anche all’estero, e va bene così. Non mi preoccupo troppo della condizione, finché ho una storia da raccontare penso di poter rimanere a galla. Essere un musicista in questo paese pone sicuramente tante difficoltà, anche se c’è un buon vivaio. Tanti artisti e ottime proposte. È duro l’aspetto politico e burocratico, ma alla fine, in quanto artista, tendi un po’ a fregartene, pur sbattendoci contro per esigenze pratiche.

 

Il jazz d’avanguardia è considerato un genere troppo distante dagli interessi del grande pubblico. Come credi si potrebbe incentivare il grande pubblico ad avvicinarsi?

 

C’è una definizione, quella di “jazz d’avanguardia”, che spaventa, che identifica che sembra orientata a pochi, alla nicchia. Ma sono convinto che già proporlo potrebbe essere un buon inizio. Spesso e volentieri queste proposte vengono scartate perché la stessa paura è presente in direttori artistici piuttosto che titolari di locali. Anche se poi, nel proporlo, scopri invece interesse da parte del pubblico. Magari il curioso, che dopo la prima volta ritorna, e riesce a notare le differenze particolari da una esibizione a un’altra. E da lì inizia a seguire più o meno regolarmente. Proporlo sarebbe un primo passo. Sarebbe utile farlo anche attraverso i mezzi di comunicazione di massa, come la televisione. Non che adesso nessuno ne parli, ma gli spazi dedicati sono tutti notturni: come ormai tutta la cultura non commerciale. Poi capisco benissimo che, per vendere un prodotto come un jeans, si ha bisogno di ben altre musiche.

 

Credi che Torino sia, da questo punto di vista, una città culturalmente ricettiva?

 

Penso che il pubblico, potenzialmente, lo sia. Vedo che, almeno ai miei concerti, difficilmente c’è poca gente, nonostante presenti un repertorio non immediato. Però il pubblico risponde bene. Per quanto riguarda la ricettività cittadina, allargando un po’ il raggio troviamo indubbiamente città più interessanti, soprattutto all’estero, però potenzialmente Torino potrebbe competere.

 

E all’interno del panorama italiano? 

 

Ci si lamenta sempre tanto di Torino: in realtà è una buona piazza per la musica. Le proposte ci sono, e ci sono tanti locali in cui presentarle. Le difficoltà restano sempre quelle legate alla praticità, alla burocrazia, al cachet, però c’è davvero un bel vivaio, un bel circuito underground che si rivolge proprio a questi aspetti più sperimentali. Quindi rispetto ad altre città italiane non mi sento di dire che Torino sia messa peggio.

 

Al di fuori dell’ambito prettamente jazzistico, cosa apprezzi del panorama culturale contemporaneo torinese?

 

La notevole apertura delle gallerie d’arte. A me è capitato spesso di suonare in gallerie e circuiti d’arte contemporanea, che per quanto mi riguarda è il mio habitat naturale. Le mie esperienze includono anche la pittura, da autodidatta: le stesse partiture sono a volte tavole pittoriche. Apprezzo molto questo aspetto perché così si inizia a preventivare che la cultura non può viaggiare a compartimenti stagni. L’arte non è suddivisa, come vogliono far credere le istituzioni, tra accademie di belle arti, conservatori, università e altro. Si iniziano a sentire concerti dove però la scrittura o magari le proiezioni hanno un ruolo notevole. Ci sono stati esperimenti in questo senso negli anni ’60, ora questo aspetto sta tornando con nuova energia. Apprezzo realtà come il Museo del Novecento di Milano o il MAXXI di Roma, che in questo circuito si stanno muovendo in maniera massiccia. Cosa che all’estero è ormai abitudine. Nord Europa, Giappone, Sudamerica sono un passo avanti in questo campo.

 

Parliamo però di casi in cui l’insegnamento musicale è proposto sin dalla scuola dell’infanzia, contrariamente a quanto avviene in Italia.

 

Assolutamente sì. Stanno cercando di inserire il jazz nei programmi della scuola primaria, cosa che AR.CO.TE. fa’ già da un po’ attraverso laboratori legati all’improvvisazione. Ci stiamo provando dal 2009, e ci stiamo riuscendo: in generale a Torino, ma soprattutto nelle scuole di Porta Palazzo e Barriera di Milano.

 

Questo mi conduce alla prossima domanda: quanto ha influito il genere di musica da voi proposto nel processo di recupero dei quartieri della periferia Nord?

 

Tantissimo. In AR.CO.TE. collaborano persone che si conoscono e operano insieme da un quantitativo di anni ben superiore alla nascita dell’associazione, e che hanno sempre utilizzato il mediatore artistico e musicale per arrivare ai piccoli, ai giovani, agli adulti. Adesso si parla molto di luoghi informali del jazz: a noi sembra assolutamente normale perché è una vita che facciamo attività di questo genere in scuole, ospedali, centri culturali, addirittura nelle case popolari, sui tetti. Abbiamo fatto tanto per portare la cultura ovunque. Qualcuno afferma che non ci sono persone adeguate a ricevere queste proposte. No. Bisogna conoscere, per poter scegliere. Motivo per cui non c’è una chiusura all’interno dell’ambito del jazz d’avanguardia. Proponiamo anche percorsi orientati al rap. Ma per chi ha intenzione di farlo seriamente, non “all’italiana”. Non che all’estero la produzione rap sia tutta di livello, e anche in Italia c’è qualche esperimento ben riuscito, ma sono casi isolati. Serve credibilità e impegno nel lavorare su testi interessanti. Siamo aperti alle correnti di musica più commerciale, purché fatta sulla base di determinati criteri qualitativi, con l’ambizione ad aprire finestre un po’ diverse dal solito. Non voglio esagerare, ma ci credo e lo dico con una buona dose di sicurezza e faccia tosta: AR.CO.TE. è definita associazione perché burocraticamente, in Italia, devi essere qualcosa. Ma, per quanto mi riguarda, AR.CO.TE. è un’opera d’arte concettuale, una sorta di meme, qualcosa di trasmissibile da persona a persona. Non è solo il posto fisico, ma tutto ciò che proponiamo qui e all’estero: uno stile di vita, un virus benevolo. Il difficile è farlo comprendere. Ai politici, soprattutto, i cui interessi sono concentrati nel farsi pubblicità nei mondi di periferia. Adesso sembra che lavorino tutti nelle periferie e per le periferie, quando in realtà da parecchi anni sono sempre le stesse associazioni a occuparsi di queste aree. A volte sbuca qualche fenomeno per raccattare il soldo pubblico. Noi non fondiamo la nostra attività su fondi pubblici anche per avere un certo grado di autonomia di pensiero e artistica. Se vinciamo i bandi bene, altrimenti poco male, i progetti li realizziamo comunque. E quando arriva il personaggio o il politichetto, come spesso capita, a tirare la giacchetta, gli dici “vai a fare in culo, per tutto il resto c’è Mastercard”. È una posizione sicuramente scomoda, ma d’altra parte la professionalità paga.

 

Hai citato il caso dei bandi: potrei citare AxTo. Non si rischia una democratizzazione del giudizio nei confronti di proposte, di cui la gente non conosce assolutamente niente, e su cui non è in grado di dare un giudizio obiettivo? E alla fine della fiera i fondi pubblici vengono destinati attraverso questi metodi poco meritocratici.

 

È una decisione legata a ipotetici voti futuri. Qualcuno potrà affermare che hanno potuto votare tutti, che è stata coinvolta la cittadinanza.

 

Quindi il tuo giudizio è negativo?

 

Sì. Per come è stata concepita dal principio, annulla ogni principio meritocratico. Non voglio entrare nell’accezione politica specifica, ma non è nella mia natura impegnarmi in milioni di telefonate per far votare amici e parenti più o meno stretti. Tanto i progetti li realizzeremo comunque, con molta più fatica e senza fondi. Le persone che aiuteranno saranno gli stessi cittadini fruitori del progetto, è solo più macchinoso e più arduo.

 

Chi sono i compositori che hanno influenzato di più il tuo stile compositivo?

 

Sicuramente John Cage. A questo punto ti aspetteresti solo nomi di musicisti, però ti dirò Jackson Pollock, Joseph Beuys, per loro il modo di pensare. Poi, riguardo alle tecniche compositive, alcune le studi, alcune le apprendi, alcune le ascolti. Altre le cogli trascrivendo. Li cito per la modalità di approccio alla composizione delle opere pittoriche e, pensando a Beuys, per ciò che concerne lo stile performativo. Poi ci sono tutti gli ascolti fatti, e qui penso alla musica di Sun Ra. Indubbiamente sono partito da quella che è la musica definita classica, associata a un certo quantitativo di rock. Un altro riferimento che citerei è Bach, perché, per come la vedo io, i voicing più interessanti, a tratti jazzistici, li ha scritti lui. In Bach c’è ancora un mondo da scoprire, ogni tanto noto dettagli nuovi anche in pezzi che suono, per diletto, da una vita, come ilClavicembalo ben temperato, le Suite Inglesi. E ovviamente Miles Davis, impossibile non ricordarlo. Si potrebbe fare un elenco infinito, però in generale direi questi nomi.

 

E per quanto riguarda gli esecutori? Non necessariamente jazzisti.

 

Sganciandomi dalla parola “esecuzione”, perché quando si parla di jazz è un po’ forzata, se penso in generale alle trombe dico nuovamente Miles Davis, non posso lasciarlo fuori. Ha ribaltato la storia del jazz e della musica almeno cinque volte, ricercando una particolarità di suono straordinaria. Però aggiungo anche Lester Bowie, Don Cherry. Tra i viventi apprezzo Wadada Leo Smith e il suo Studio del silenzio, volendo lo posso inserire anche nel discorso compositivo della domanda precedente.

 

Se dovessi individuare il più bel pezzo musicale di tutti i tempi, cosa sceglieresti? Fosse anche solo un passaggio di qualche battuta o secondo.

 

4’33’’ di Cage. L’unico concerto mai riuscito nella storia della musica.

 

Perché?

 

Perché non si è mai riusciti a un silenzio reale in qualsiasi tipo di tentativo di questo concerto. Dall’ilarità di un’orchestra, alla pioggia battente sul tetto del teatro, al colpo di tosse del pubblico, al cigolio della sedia. Su questo processo di ricerca del silenzio puro sono stati poi scritti trattati. E qui si innesta il pensiero del Fluxus, per cui ritorniamo al discorso precedente della mescolanza delle arti. Cage viene definito compositore, musicista, artista in senso lato. La sua, a volte, viene definita “non musica”. A me piace questa condizione, che per essere raggiunta necessita di una totalità artistica abbastanza impegnativa.

 

Mi viene in mente, a questo proposito, la citazione di un direttore d’orchestra, Riccardo Chailly, che ha dichiarato: “il segreto della musica è nelle pause”. Quanto ti trovi d’accordo?

 

Al massimo, è proprio così.

 

Esiste un fil rouge che lega la tua produzione? 

 

L’unico fil rouge è la storia che mi porto dietro io. Tutto quello per cui ho patito, patisco, per cui sono contento, fiero, le cose che mi lasciano amarezza, le riflessioni personali, diventano solitamente suoni e segni. E diventano poi performance-concerto. A meno che non ci sia una commissione da parte di qualcuno, ma in generale il filo conduttore è questo qui, perché si tratta di un’esigenza. Non mi sono mai posto la domanda del perché faccio il musicista. Lo faccio, lo sono e basta. E anche a quelli che affermano che facendo educativa esulo dalla condizione di musicista, rispondo che è un modo per continuare a fare arte, perché vieni a contatto con persone, che hanno storie da raccontare. Fatico a far comprendere questo concetto. Musicista, educatore, musicoterapeuta, è sempre la stessa cosa. Anzi, spesso, la produzione artistica è suggerita dallo stesso caso clinico che segui, o dal gruppo di giovani con cui tratti, anche involontariamente da un’esperienza di vita.

 

Come compositore, esiste un lavoro che reputi meglio riuscito rispetto ad altri?

 

Come dicevo, essendo legati a pezzi di storia personale, non ho una preferenza. Vivo qui ed ora. Poi, ovviamente, prediligo, da un punto di vista artistico, quelli più recenti, però poi una preferenza effettiva non la ho. Quando riguardo i vecchio lavori, magari più semplici, talvolta anche banali, vedo che hanno comunque avuto un senso nel percorso. Potrei però citare un’esperienza che mi ha arricchito particolarmente, quali sono state la collaborazioni con Silvano Bussotti, in particolare l’ultimo lavoro, Dejavù, un inedito che spero di pubblicare il prima possibile, che tratta diciassette tavole. Un lavoro veramente estremo, di fiducia, considerato che si tratta di uno dei più grandi compositori d’avanguardia viventi. Il contatto con lui mi ha permesso di compiere grandi passi avanti nelle mie composizioni, per quanto riguarda la modalità. Però l’affezione è orientata un po’ a tutti i lavori. Se invece penso al meglio riuscito, direi che non saprei sceglierne uno. Spesso dipende dal pubblico, dalla carica, dalla concentrazione dei musicisti, dall’energia della sala, per cui una stessa composizione può essere un successo una sera in un determinato posto, e poi riuscire meno bene un’altra sera, in un altro posto. 

 

C’è stato un input specifico che ti ha fatto capire di voler fare il musicista?

 

Ho iniziato a fare il musicista per caso. Camminando qui in quartiere Aurora, passando davanti a un vecchio negozio di pianoforti con i miei genitori, ho sentito suonare la Suite Inglese in La minore di Bach. E, in quel momento, ho pensato: “Io voglio fare questo”. Senza neanche sapere cosa volesse dire, precisamente, “questo”. Poi ho sempre disegnato, scritto con naturalezza, e ha aiutato per quel che riguarda la sperimentazione. Ero interessato più dal colore che non dai disegni. E aggiungo che non sono figlio di musicisti. Per molti è importante ricordare di essere figli d’arte, io vado fiero del contrario: c’è stato un percorso di impegno, di fatica. Non credo di avere doti fuori dal comune: ho una tecnica normale, un orecchio normale: però ho tantissime esperienze da raccontare, e una creatività oltre la media, questo me lo riconosco. Esperienze che non sono necessariamente legate al mondo della musica, come l’aver suonato con il compositore di fama mondiale piuttosto che aver registrato con certi strumentisti, ma anche, per esempio, l’esperienza del ragazzetto del ballatoio di fronte, quella del tossico del quinto piano. Se vuoi imparare qualcosa non è necessario andare a recuperare i fenomeni o i massimi sistemi. Questo è un altro mito da sfatare.

 

Hai parlato del rapporto tra jazz d’avanguardia e grande pubblico. Invece per quanto riguarda il rapporto con le altre correnti della musica strumentale contemporanee?

 

Si hanno diversi esempi di commistione. Si parla di commistione, di integrazione. Ci sono diverse possibilità, diversi esperimenti, tentativi. Non è abitudinario, ma diverse esibizioni traggono materiale da differenti filoni. Il limite non sta nel pubblico, è burocratico e politico: esistono fondazioni che ricevono, da decenni, fondi per curare rassegne in cui entrano solo certi generi. E allora nella rassegna di classica entra solo classica, in quella jazzistica solo jazz, e via dicendo. Ed è un limite perché si limitano le possibilità di ricerca derivanti dall’incontro tra ambienti diversi.

 

Ci sono caratteristiche del jazz di un secolo fa che il jazz d’avanguardia è riuscito a preservare?

 

Assolutamente sì. Lo si vede nel fraseggio. Talvolta lo si percepisce nella struttura, anche se non ce se ne accorge immediatamente. Poi dire jazz è dire tanta roba. Si va da Armstrong a Coleman, generi diversissimi. Secondo me il jazz odierno, si voglia chiamare moderno, d’avanguardia, è riuscito a preservare un linguaggio del passato. Sta facendo fatica, in realtà, a orientarsi verso il nuovo. Adesso c’è tanto culto della tradizione: nel rock, o nel pop, si parlerebbe di cover band. Il jazz è tecnologia, innovazione, e sguardo rivolto al passato. Degli ultimi due termini, vedo più difficoltà ad aprire un discorso di innovazione piuttosto che a preservare elementi del passato. Dico sempre che a Torino c’è un livello tecnico e musicale mostruoso, compensante qualche carenza nell’ambito della ricerca di forme nuove. 

 

Se la destinazione del jazz delle origini erano masse rimaste escluse dalla musica “borghese”, oggi il pubblico di riferimento sembra diventato molto più intellettuale, radical, e a tratti di nicchia. È una rivalutazione del ruolo sociale del jazz o piuttosto una sua snaturazione?

 

Non credo che il pubblico sia più radical, penso che ci sia una maggiore attenzione nei confronti del suono. Non tutti se ne sono accorti, ma, nel tempo, il concetto stesso di suono è cambiato. Molti elementi sono stati tratti dal discorso riguardante il novecento storico, per cui il confine tra la musica “eurocolta” è diventato col tempo sempre più labile. Motivo per cui il pubblico, in realtà, è misto. Continua a esserci chi viene a cercare la novità, e tende a immergersi a un discorso di tipo sonoro. C’è poi chi ha un’orecchio più tecnico, emotivo, o più storico: sono diversi tipi di ascolto. Non credo che il pubblico sia più radical. Che poi si presenti l’ignorante che viene a fare il radical, fa parte del pacchetto. L’atteggiamento più radical l’ho sempre visto dalla politica, quando qualcuno viene ai concerti per fare presenza, magari in periodo elettorale. 

 

Tra le altre cose ha collaborato con il Museo del cinema di Torino per la ristesura della colonna sonora di una pellicola in bianco e nero. Come valuti il rapporto tra musica e cinema oggi, alla luce dell’uso sempre più ricorrente di elettronica e sintetizzatori, e dalla mancanza conseguente della performance dello strumentista?

 

In realtà era una sonorizzazione dal vivo di tre pellicole in bianco e nero restaurate dalla sovrintendenza. Sono abbastanza contrario a quelle colonne sonore basate su banche dati di suoni. Sono ancorato alla concezione un po’ più classica dell’esperienza compositiva: quella che parte dal film, dal compositore, dallo strumento. Però credo che, come per tutto, l’elettronica possa essere utilizzata molto bene, se accuratamente studiata. Dandole la stessa importanza dello strumento musicale. Aiuta tantissimo la possibilità di avere un’orchestra virtuale intera senza dover pagare ogni singolo esecutore. C’è chi utilizza il loop per originare stratificazioni molto interessanti, perché lo concepisce come un punto di partenza per innovare, e chi ne fa uso per salvarsi il sedere e ottimizzare i tempi. È una questione di approccio allo strumento. Sono contrario all’uso smodato, meccanico, ma già se penso alle possibili interazioni tra elettronica e strumento acustico, si apre un mondo completamente diverso. 

 

Non c’è il rischio di rendere troppo commerciale qualcosa che dovrebbe e potrebbe dare una spinta in senso intellettuale alla pellicola?

 

Si, ma non è un rischio: è un dato di fatto, una realtà. Già nelle fiction, senza andare a smuovere le pellicole cinematografiche. Film di un certo peso, come hai detto, intellettuale, con una certa colonna sonora ricercata, ne vengono fuori sempre meno: perché ci va tempo. La creatività ha bisogno di tempo. Siamo una società che richiede una velocità di risposta troppo elevata. 

 

Ci sono compositori cinematografici che apprezzi particolarmente?

 

Può sembrare banale come risposta, però in base ai film prodotti, ce ne sono alcuni in cui le immagini non si possono sganciare dalla musica. E penso a Morricone. La necessità di portare a casa lo stipendio gli ha procacciato la fama di melodista, ma ha strizzato l’occhio alle avanguardie. 

 

Ti senti di dare dei consigli in merito a “come” ascoltare un brano musicale?

 

No. Risposta facile. Siediti, libera la testa dai preconcetti culturali che porti dietro, spegni il cellulare e fatti rapire. L’unico consiglio è di scegliere l’ascolto dal vivo.

Johnny Lapio : Arcote è una eccellenza musicale, artistica ed educativa aperta a tutti

Pensando alla vita artistica italiana e più nello specifico a quella musicale, con la scena che per le diffuse difficoltà tende a cristallizzarsi in proposte ripetitive e consolidate, capita che se si allunga lo sguardo oltre, la prima forte impressione evinta sia diametralmente opposta e che si rimanga colpiti dalla dimostrazione di dinamica e incrollabile vitalità.

a cura di Monica Carretta - 08/03/2018 su MUSICAJAZZ.IT

 

A Torino siamo andati a trovare Johnny Lapio, trombettista-artista-educatore-direttore artistico, fondatore – motore propulsore in perpetuo movimento e ideatore di sinergie creative tra diverse discipline – di Ar.Co.Te – Atelier delle Arti Contemporanee e Terapeutiche. Una realtà di impegno sociale, nata in un quartiere cittadino problematico, affermata e riconosciuta anche all’estero, che vive e cresce pur tra le molteplici e reali contraddizioni.

 

Partiamo dalla esperienza personale come musicista-performer, che inizia con studi diametralmente opposti seppur poi base fondamentale delle scelte fatte con la costituzione dell’associazione AR.CO.TE. onlus. Ci racconti il tuo percorso formativo e artistico?

Mi ritengo un creativo da sempre e da sempre sono interessato, in maniera del tutto naturale, ai linguaggi non verbali e alle percezioni umane in generale. La mia formazione, che non differenzio in artistica e non – ritengo che la vita in generale sia un’opera d’arte – è cominciata pressoché da subito con una predilezione per l’elemento sonoro e quello visivo. Suono e dipingo da sempre, anche se il jazz e la tromba arriveranno in adolescenza inoltrata, con già una buona maturità artistico-musicale e un discreto bagaglio professionale.

 

Ho suonato e performato in diversi continenti e nei contesti più disparati, ho vinto diversi premi legati soprattutto al jazz di ricerca. Queste esperienze mi hanno permesso, e continuano a permettermi, di incontrare persone e realtà straordinarie che impreziosiscono la mia crescita umana e artistica. Tutto ciò avveniva e avviene a Torino in un quartiere complesso, Porta Palazzo, che alle difficoltà di una zona popolare, contrappone continui stimoli culturali. Non a caso iniziai a suonare in gruppi con etnie diverse, vivendo tutte le vicissitudini dei giovani, e parallelamente in teatri lirici e di prosa come performer o attore.

 

Solo in seguito, a professione già iniziata, affrontai i percorsi accademici di Diploma in Conservatorio e Accademia di Belle Arti. Mi sono trovato quasi involontariamente ad essere anche educatore (con un’accezione ampia del termine) e a pensare che le arti, in particolare il jazz e la sua storia, potessero avere una corsia preferenziale con i giovani. In seguito ho poi affrontato i percorsi universitari, educativi, musicoterapici e arteterapici. Nonostante la tromba sia lo strumento che maggiormente mi rappresenta credo che l’aspetto più interessante sia quello creativo e compositivo (sonoro e visivo) sia per finalità artistiche che educative, e spesso non c’è una vera e propria differenza.

 

Da questo percorso personale, che incrocia scienze dell’educazione – criminologia – musica e la nascita in un quartiere di Torino con problemi di delinquenza, immigrazione e disagi sociali, nasce in te l’urgenza di agire attivamente per creare integrazione e hai fondato un’associazione e un locale multidisciplinare.

Io rispondo sempre che Arcote non è un’associazione ma un’opera d’arte concettuale, uno stile di vita, un elemento di cultura replicabile e trasmissibile tra gli individui. Ci sono pensieri e personaggi che hanno inciso profondamente nel mio modo di pensare e che per certi versi fanno parte di me, ad esempio il Fluxus, il Teatro Totale di Sylvano Bussotti, Rudolf Steiner, Yoseph Beuys, Braxton e la sua Tricentric Foundation, Sun Ra, la storia dello AACM per citarne solo alcuni.

 

Volevo che Arcote fosse un’eccellenza musicale, artistica ed educativa, accessibile a tutti e che fosse ubicata nel quartiere di Torino più “energetico”. Un luogo multidisciplinare – la vita stessa è multidisciplinare – che non avesse barriere di alcun genere, confini e bandiere perché la natura non ne ha, ma soprattutto avesse uno stile unico che non ponesse limiti alla creatività. Ad Arcote arriva il superprofessionista che vuole specializzarsi, il minore che vive di espedienti che in Arcote vede una reale alternativa, la famiglia di immigrati che cerca un’educazione specifica per i figli o un luogo in cui leggere e confrontarsi con altre persone, ma soprattutto da Arcote può passare chiunque abbia un’idea o una storia da raccontare.

 

Da Arcote sono transitati personaggi come Sylvano Bussotti, Rob Mazurek, Don Moye, Chris Jonas, Satoko Fuji. Per fare questo ho sicuramente sfruttato le passate collaborazioni musicali e artistiche, ma in seguito ho creato un ponte con realtà italiane ed estere come Bussottioperaballet, Sviska, Tricentric, Little Globe e molte altre. Parlo in continuazione di Arcote ovunque e ora conoscono questa realtà a Tokyo, New York, Santa Fe, Parigi, Copenaghen, Tai Pei…

 

Perfino progetti ed ensemble nati in seno ad Arcote ne portano il nome o il nome del quartiere in cui siamo radicati: ContemporaneaMente Arte, Arcote Jazz Torino, Porta Palace Collective, Arcote Project. Dal punto di vista storico-culturale Arcote ha inoltre contribuito alla realizzazione di progetti molto importanti come Regards e Calendario II e il Sonic Genome di Braxton.

 

Quanto è stato problematico e complesso aprire l’atelier senza fondi pubblici? L’associazione è una onlus, si autofinanzia? Come è possibile contribuire e sostenere l’associazione?

All’inizio molto, soprattutto se si pensa che io vivo tutt’ora con la musica e l’arte (senza, per scelta, insegnare non avendo neanche 30 anni). L’apporto maggiore arriva sicuramente dallo staff di Arcote, costituito da professionisti e amici con cui condivido importanti esperienze umane e professionali. Inoltre, altro dato secondo me importante, è che lo staff è costituito prevalentemente da donne impegnate nel sociale e appassionate di musica ed arte.

 

Il primo anno in particolare, ogni mio guadagno personale  legato ai concerti, alle performance, alla Musicoterapia, e parte dei guadagni dei collaboratori veniva utilizzato per ammortizzare i costi e le spese (è facile immaginare i costi di un atelier di 250 mq). Col tempo la situazione è cambiata, ora è un’importante realtà nazionale. Ci tengo inoltre a precisare che nessun socio fondatore percepisce un solo euro da Arcote (me compreso) e che la base volontaristica è molto forte. In generale ogni persona ha un lavoro esterno e le entrate vengono spese per finalità sociali e culturali.

 

L’autofinanziamento è legato soprattutto al volontariato (si va dai 17 ai 60 anni) e per partecipare è anche possibile utilizzare i classici canali, come donazioni e 5 per mille. Vengono inoltre proposti corsi strumentali, artistici, danza per bambini, Musicoterapia, Arteterapia, progetti educativi, ma sempre – dopo aver ammortizzato la spesa – si reinveste per costruire altro.

 

Il modo migliore per sostenere l’Associazione è conoscerci, venire a trovarci e visitare l’Atelier – difficilmente si rimane indifferenti – e nuove persone portano nuova energia, nuove idee, nuovo aiuto. Si entra a far parte di uno stile di vita, di un’opera d’arte, non banalmente solo di un’associazione. Per quanto riguarda il discorso fondi pubblici, quando vinco il bando di un progetto sono molto contento ma per poter essere libero di dare ai miei progetti il taglio e l’orientamento che scelgo devo rendermi sostenibile indipendentemente dall’erogazione economica di un bando. Come spiego ad un politico, che magari vuol piazzare qualcuno dei suoi amici, che Arcote è uno stile, un’opera? Ed è per questo motivo che la mia figura è scomoda.

 

Come è possibile che a Torino ci siano luoghi per i quali sono stati spesi centinaia di migliaia di euro e sono pieni di debiti, mentre un luogo autosostenibile, che funziona, che necessiterebbe del quadruplo dello spazio, non riceve neanche un euro? Eppure esistiamo nonostante tutto, perché chi comprende la mission di Arcote capisce che non è una semplice associazione, ma un modo di vivere, un atteggiamento mentale che rompe gli schemi.

 

Fin dall’acronimo che da il nome all’atelier – AR.CO.TE arti contemporanee terapeutiche – è esplicito l’intento. Quali sono le principali attività che svolgete?

Le nostre attività sono molteplici: diffusione del jazz, della filosofia musicale e corsi strumentali, laboratori creativi, pittura, formazione in ambito pedagogico ed educativo, organizzazione di eventi, interventi nelle scuole, neuropsichiatrie infantili, collaborazioni con il carcere minorile ed un laboratorio di ricerca musicale e artistica tenuto da me e denominato New Collective Avant-garde in cui confluiscono musica, arte, scrittura, improvvisazione.

 

Il jazz e l’improvvisazione hanno un ruolo centrale tra le tante musiche e arti che vengono insegnate ad  AR.CO.TE. Ci spieghi come hai creato il legame tra jazz e socializzazione del quartiere?

L’ho creato portando il jazz ovunque, soprattutto in luoghi informali come scuole, ospedali, case popolari, comunità, giardini, borghi, gallerie d’arte, tetti del quartiere, cortili, università e organizzando, quando possibile, festival o rassegne. Con il nostro “marchio” sono idee come il primo Festival della Cultura Contemporanea Italiano, Danze e Sapori dal Mondo, Suoni d’Africa, What’s jazz?, le Anteprime Jazz del Torino Jazz Festival.

 

Tieni presente che il quartiere ha un pubblico molto variegato per etnie, età ed estrazione sociale e che per jazz io intendo innovazione, tecnologia ma rivolte alla tradizione. Quindi nelle rassegne, nelle scuole, trovi percorsi che vanno dal mainstream all’elettronica con proiezioni video. Altri riciclano le nostre idee, senza neppure citarci, ma ci fa piacere perché vuol dire che il percorso intrapreso è ottimo. Invece dispiace che le istituzioni non comprendano che i luoghi sono fatti di persone e che per far funzionare le cose non basta sistemare le strutture degli edifici, dare due soldi e scopiazzare le idee.

 

Per quanto riguarda l’improvvisazione proponiamo ai giovani e alle scuole (dalla Scuola Primaria all’Università) dei percorsi in cui si usano corpo, materiale da riciclo, strumentario Orff; il tutto accompagnato da video, ascolti, rapporti tra la scrittura musicale, la scrittura audio tattile, la musica audio tattile, il rapporto tra jazz e arte. A differenza di altre istituzioni, si arriva fino alla storia attuale del jazz prendendo in considerazione anche e soprattutto luoghi diversi dall’Italia e dagli USA, come, ad esempio, il Nord Europa, il Giappone. Se è vero che il jazz è musica d’arte, lo spettro deve essere ampio.

 

Musicoterapia e arteterapia: scienze complesse e affascinanti, anche per chi è profano a queste discipline. Nell’atelier i laboratori coinvolgono gruppi di tutte le età? E tutti reagiscono e partecipano con uguale entusiasmo?

Non ci sono limiti di età e spesso gli interventi musicoterapici e arteterapici vengono attuati anche all’esterno dell’Atelier: scuole, cliniche comunità. La partecipazione e l’entusiasmo sono differenti sia in base alla composizione del gruppo con cui ti interfacci che in base al contesto che ospita l’attività.  Immagina per esempio di essere in un carcere minorile, probabilmente avrai alcuni minori interessati e altri obbligati dall’istituzione a partecipare. Il coinvolgimento sarà necessariamente diverso, anche se in generale con la musica il grado di coinvolgimento raggiunge epiloghi apparentemente inaspettati.

 

Avete istituito anche Master accademici.

Arcote collabora da anni con l’Accademia di Belle Arti di Brescia dirigendo un Master di I° livello in Artiterapie (primo in Italia) in cui convergono i nuovi linguaggi della performance. E’ un percorso accademico per laureati e professionisti interessati ad un uso differente del suono e del segno per finalità preventive, riabilitative, terapeutiche, artistiche ed educative. E’ utile per musicisti, artisti e operatori sociali che necessitano di punti di vista differenti, nuovi stimoli, idee compositive ed esercizi pratici da proporre in diversi contesti.

 

E’ un percorso serio legato a modelli teorici di riferimento ben precisi; lo preciso perché purtroppo l’alone di magia che aleggia dietro i termini musicoterapia e arteterapia è imbarazzante. Il nostro Master e il nostro approccio non rientra in questi casi. L’utenza del corso è racchiusa tra l’artista/musicista affermato, all’operatore sociale con età e provenienza geografica differenti. Si lavora inoltre sempre e solo con gruppi piccoli in modo che il percorso sia specifico e lasci un’impronta professionale e umana importante

 

Tra i molteplici ruoli che svolgi all’interno di AR.CO.TE organizzi concerti e sei il direttore artistico di Beer & Jazz on Monday.

Beer & Jazz on Monday è una delle rassegne più storiche di Torino (che sopravvive sempre senza soldi pubblici) e prevede un concerto ogni lunedì sera da ottobre ad aprile. La maggior parte del mio tempo la trascorro a suonare, a viaggiare per concerti, dipingere, scrivere performance e provare ma quando intravedo una possibilità di innovazione prendo in considerazione il discorso “direzione artistica”.

 

Nel caso specifico ho pensato che fosse interessante proporre di concerti il lunedì sera, giorno in cui non ci sono grandi proposte, con un orario pensato per le persone che il mattino si devono alzare presto per il lavoro. A questo punto per stuzzicare la curiosità ho ragionato su un programma jazzistico eterogeneo, che vada dal mainstream alla sperimentazione, in modo da poter raggiungere sia il giovane che il vecchio appassionato. I gruppi musicali sono eterogeni, diversi e spesso con ospiti internazionali. Il tutto è associato ad un luogo legato all’artigianato, nel caso specifico alla birra. Tutto questo è stato possibile grazie alla passione del titolare del Birrificio Torino.

  

Monica Carretta


Il jazz tra Barriera di Milano e Porta palazzo

di ilTorinese pubblicato venerdì 14 aprile 2017

 

Johnny Lapio, Classe 1980, conseguita la maturità scientifica, si laurea in Scienze dell’Educazione e si qualifica in criminologia presso l’Università Pontificia. Studia la tromba e il pianoforte (ma è attirato anche dal teatro e dalla pittura) si inserisce ben presto nel filone dell’avanguardia sperimentalista di John Cage, avviandosi alla ricerca musicale e in seguito musicoterapica. Si diploma al Conservatorio dell’Aquila, di Cuneo e all’Accademia di Belle Arti di Brescia. Attualmente insegna Nuovi linguaggi della performance, Musicoterapia e Arteterapia presso L’Accademia di Belle Arti di Brescia. Vince numerosi concorsi, residenze e premi sia musicali che artistici, sia nazionali che internazionali, tra cui Real Presence (Belgrado), Premio Speciale di Presidenza (AIL Roma), Giovani Talenti delle Alpi Latine, Movin’up, Premio Speciale Movin’up e molti altri. Compositore, la punta di diamante della sua musica di avanguardia è senza dubbio la collaborazione in atto dal 2013 con il compositore di fama mondiale Sylvano Bussotti.

 

A questo possiamo aggiungere anche spettacoli come “Gabbie”, una performance multimediale da lui ideata e creata con certosina attenzione, con la partecipazione di eccezionali artisti come Giancarlo Schiaffini al trombone e Carlo Actis Dato al sassofono. Numerose sono le partecipazioni a rassegne, festival e i luoghi nel mondo in cui la sua musica viene eseguita ed è leader di numerose formazioni recensite da prestigiose riviste specialistiche internazionali; per citarne alcune Porta Palace Collective, Arcote Project, Torino Performing Orchestra. Proprio la critica francese ha definito Johnny Lapio una delle più belle scoperte dell’avanguardia italiana degli ultimi anni. Durante l’edizione 2015 del Torino Jazz Festival, ha partecipato all’eccezionale performance del Museo Egizio, in cui Anthony Braxton ha diretto settanta musicisti per otto ore in versione peripatetica fra gli spazi del Palazzo dell’accademia delle scienze, gioiello barocco di Guarino Guarini. Braxton, rimasto sorpreso dalla creatività di Lapio, l’ha voluto in America nella sua Tri-Centric Foundation, per un’importante tournée nel New Mexico con il sassofonista Chris Jonas. In questa occasione ha partecipato in qualità di trombettista alla Prima Mondiale di “Sketches in the Garden III: Home”. Ma le collaborazioni continuano con Baba Sissoko, Satoko Fujii, Natsuki Tamura, Rob Mazurek e numerosi altri artisti.

 

Ha fondato ed è direttore artistico dell’Associazione “Arcote” situata in via Cuneo, realtà divenuta ormai internazionale, fucina di complicità creative generate dal jazz utilizzato anche come mezzo di riqualificazione culturale urbana. Da più di dieci anni l’associazione ha portato in pianta stabile nei quartieri critici di Torino il jazz e le artiterapie mettendo in atto un’azione educativa senza precedenti. L’atelier è fortemente legato alla realtà di Porta Palazzo e dintorni, zona da cui Lapio è partito per diffondere la sua musica nel mondo, progetto che sta attuando attraverso tournee e collaborazioni di calibro mondiale gemellando lo stesso quartiere con realtà artistiche internazionali. Al nostro Johnny, custode geloso dell’anima di Porta Palazzo, si sono spalancate da tempo le strade internazionali e ora l’aspetta una importante e prestigiosa tournee in Giappone, ulteriore occasione per portare il made in Torino nel mondo.


Musica e arte - Intervista a Johnny Lapio

JAZZIT - 19 maggio 2017

Trombettista, compositore, artista, direttore… difficile classificare Johnny Lapio, un personaggio a tutto tondo che da anni arricchisce la vita culturale torinese e non solo, dati i suoi frequenti viaggi all’estero. Ha di recente vinto il premio Musica e Territorio assegnato dal Centro Studi Cultura e Società (patrocinato da Regione Piemonte, Città di Torino e città metropolitana) e il Premio Speciale Movin  nato in collaborazione con Mibact, direzione generale dello spettacolo e Giovani Artisti Italiani. Lo abbiamo intervistato nella sede della scuola che dirige, Arcote Atelier.

 

Come nasce questa scuola e perché questo nome, Arcote Atelier?
Atelier perché è un luogo in cui succedono cose. Non necessariamente musicali ma anzi contaminate con arte, teatro, danza, sociale, musicoterapia; una sorta di trasversalità che caratterizza anche la mia produzione musicale e artistica.

Nasce nel 2009.
Esatto: un luogo autonomo, apartitico, apolitico che si regge in piedi da solo: una fatica immonda…

Nel 2009 eravamo già entrati nella crisi economica. Una lucida follia?
Dico sempre che questo posto nasce con la crisi; ho sempre avuto fiducia nelle mie idee e la fortuna di avere persone come i miei collaboratori che mi hanno appoggiato. Ritenevo in effetti che dalla crisi potessero nascere cose interessanti e utili: per esempio qui c’è il super professionista che viene a studiare, così come il giovane del quartiere che si affaccia su mondi nuovi e personaggi di altissimo livello: abbiamo avuto ospiti importanti come Sylvano Bussotti, Rob Mazurek,  Anthony Braxton, fino ad arrivare a Jonathan Fox per il Playback Theatre… possibilità uniche di incontrare e conoscere uomini straordinari.

 

Quale obiettivo ti sei posto?
Siamo in un quartiere popolare, quindi desidero ci sia un polo delle arti in un contesto difficile; in secondo luogo mi interessa far conoscere questo luogo all’estero; cerco infatti di gemellare Arcote con tutte le realtà con cui vengo in contatto. Il luogo è concepito come una sorta di opera d’arte cangiante, e quindi evolve costantemente.

 

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Mi vengono in mente quelli legati alle residenze creative di Jazzit, che mi sembra un’idea molto interessante; una residenza è artistico musicoterapica, vorrei far chiarezza sul tema. Un’altra si chiama New Collective Avanguarde: si tratta di realizzare in breve tempo uno spettacolo di 40 minuti con  diverse modalità di esecuzione e composizione, aperto a tutte le arti, quindi musica, video, scrittura, etc.
Ho anche in programma una tourné a Chicago nel marzo del 2018, e due nuovi dischi: ho appena finito un lungo lavoro costituito da 19 partiture di Silvano Bussotti, rivisto a modo mio ma da lui supervisionate; e poi c’è un live pubblicheremo a breve.

 

Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Un po’ egoisticamente… riuscire a far capire il vero significato della mia produzione artistica.

 

I prossimi appuntamenti?
20 maggio >Torino, GAM, assegnazione del premio Musica e Territorio
18-21 Maggio >Torino Narrazioni Jazz, Sketches in the Garden III e Porta Palace Collective con C.Jonas
21 maggio >Torino, Radio Rai 3: programmi L’idealista e Fareneight Arcote Project
23 maggio >Milano, Museo del 900, Calendario II di Sylvano Bussotti e Johnny Lapio, prima assoluta
10 giugno >Castello di San Giorgio Canavese Arcote Project
23-25 giugno > Feltre, Jazzit Fest, residenza creativa
5-8 luglio >     Copenaghen Jazz Festival, progetto “Continents”
9-20 luglio >   tour in Giappone (Tokyo-Nagoya-Kobe-Akasaca), progetto “Continents”

 



PROGETTI, PERFORMANCE & RECORDS


Porta Palace Collective con Rob Mazurek STONE - Rudi, 2017

28 novembre 2017

 

Uscirà a dicembre il terzo album del Porta Palace Collective; dopo le collaborazioni discografiche con Giancarlo Schiaffini, Satoko Fuji e Natsuki Tamura, il collettivo torinese guidato da Johnny Lapio presenta quella con  Rob Mazurek. La personalità del trombettista americano si integra bene nei percorsi musicali del collettivo, che si sviluppano in larghe zone d’improvvisazione all’interno di chiare strutture compositive. Registrato dal vivo a Torino l’album vede tra gli ospiti anche il sassofonista Pasquale Innarella.

 


SYLVANO BUSSOTTI & PORTAPALACE COLLECTIVE - REGARDS

REGARDS

 

 Sylvano Bussotti, composizione

 

 Johnny Lapio, riduzione, arrangiamento, tromba

 

 Giancarlo Schiaffini, trombone

 

 Giuseppe Ricupero, sax tenore

 

 Lino Mei, pianoforte

 

 Gian Maria Ferrario, contrabbasso

 

 Ruben Bellavia, batteria

 

 Riduzione e arrangiamento a cura del trombettista Johnny Lapio dall’opera Pianoforte con orchestra del compositore Sylvano Bussotti. Bussotti, classe 1931, è uno dei compositori italiani viventi più noti al mondo. Il concerto, in prima assoluta, sarà eseguito dal Porta Palace Collective alla presenza del compositore che lo ha approvato e supervisionato personalmente. Il sestetto annovera tra i componenti il trombonista Giancarlo Schiaffini, personalità musicale di spicco del panorama avanguardistico europeo. Il concerto sarà preceduto dal breve percorso tematico Musica e Arte alla GAM, che offrirà al pubblico del museo un nuovo sguardo sulle relazioni di alcuni importanti artisti visivi del Novecento con i linguaggi sonori del secolo e con la libertà espressiva del jazz.

 

Maggiori info sul sito http://www.gamtorino.it/mostra.php?id=536 

Omaggio a Sylvano Bussotti

13 settembre 2017

Si è tenuto ieri presso il Museo del Novecento di Milano l’omaggio a Sylvano Bussotti dal titolo “Respirando Appagato“, realizzato in collaborazione con l’Associazione NoMus.
 Nella sala dell’Arte Povera del Museo del Novecento di Milano si è tenuto ieri l’omaggio a Sylvano Bussotti. Giuseppe Giuliano ha eseguito i “Quattro pezzi per David Tudor per pianoforte”, intercalati dalla lettura di poesie e sonetti del compositore a cura di Ugo Martelli.
Johnny Lapio e l’Arcote Project – composto da Johnny Lapio alla tromba, Luca Biggio al tenore, Lino Mei al pianoforte, Luca Curcio al contrabbasso, Davide Bono alla batteria, Sarah Bowyer live painting, con lo special guest Gianluca Petrella al trombone – hanno poi eseguito “Regards”, una riduzione per sestetto dell’opera originariamente scritta per pianoforte e orchestra.


ANTHONY BRAXTON - SONIC GENOME

MUSEO EGIZIO

 

Sonic Genome è una performance musicale unica.

Un esperimento del compositore e sassofonista Anthony Braxton, volto a creare una sorta di "suono mondiale vivente". Più che un concerto è la creazione di un ambiente musicale interattivo.
Per otto ore di fila, una sessantina di musicisti dalle più diverse provenienze stilistiche danno vita a un happening, nelle sale del Museo Egizio, che coinvolge il pubblico facendolo entrare nel cuore del fare creativo, con esiti imprevedibili.

 

 

 

Anthony Braxton, composizione, direzione
Kyoko Kitamura, canto
Mary Halvorson, chitarra
Taylor Ho Bynum, cornetta
Nat Wooley, tromba
Ingrid Laubrock, James Fei, Andrew Raffo Dewar,
Chris Jonas, ance
Sara Schoenbeck, fagotto
Reut Regev, trombone
Jay Rozen, tuba
Carl Testa, contrabbasso
Alexander Hawkins, tastiere
Jessica Pavone, viola

 

Rachel Bernsen, coreografa